Ma di polpa ce n’è poca

Manlio Rossi-Doria, uno degli ultimi, ahimè, eminenti meridionalisti, ricorreva a un’immagine efficace per etichettare i territori del sud caratterizzati da differenti potenzialità di sviluppo: l’osso e la polpa. Il primo termine era riferito alle zone interne, ovvero ai territori montani o pedemontani, il cui basso livello di reddito e del tasso di crescita dipendeva dalla prevalenza dei settori tradizionali, l’agricoltura innanzitutto, dalla scarsa possibilità di vendita dei propri prodotti sui mercati esterni e dalla conseguente emigrazione della popolazione in età di lavoro. La polpa, invece, denotava le zone costiere, ovviamente meno ricche delle regioni del centro-nord, ma tuttavia capaci di innestare nascita di nuove attività e di trattenere, almeno parzialmente, chi si affacciava sul mercato del lavoro. In Campania la contrapposizione tra l’osso e la polpa era inerente alle difformità tra la zona costiera Napoli, parte delle province di Caserta e di Salerno e le zone interne di Benevento e di Avellino. Una sorta di dualismo regionale nell’ambito del dualismo tra nord e sud che si è riproposto, modificato ma inalterato, fino alla fine del decennio scorso. Da sei o sette anni a questa parte la situazione è radicalmente cambiata, a causa di circostanze che nemmeno Rossi-Doria, che di questi fenomeni discuteva personalmente niente di meno che con Antonio Gramsci e con Emilio Sereni, avrebbe osato immaginare. Qualche informazione statistica, sintetica ma validata da un’istituzione reputata quale la Svimez, può aiutare il lettore a valutare le nuove linee di tendenza. Dal 2000 alla fine del 2006 s’invertono le differenze nei risultati economici delle province campane: mentre Salerno, Benevento e Caserta presentano tassi di crescita della produzione del valore aggiunto positivi e significativi, Napoli denota un tasso negativo medio per l’intero settennio. Risultati comparativi simili sono desumibili per indicatori, sintetici ma indicativi, quali la produttività, la presenza di attività industriali manifatturiere, l’andamento del mercato del lavoro e dell’occupazione, la ripresa dei flussi emigratori. È intuibile quanto il progressivo decadimento della capitale partenopea dipenda da fenomeni, per così dire, esogeni: la crisi della grande impresa pubblica, la parziale contrazione dei fondi verso le grandi città del sud sono, ovviamente, tutti fenomeni che spiegano parte del tracollo napoletano. Ma tutto ciò non è esaustivo: come ogni aggiornato manuale di economia dello sviluppo ci ricorda, la crescita dipende, oltre che dalle risorse finanziarie, anche dalla capacità delle istituzioni preposte al governo del territorio. E questo “fattore di produzione” è decisivo nello spiegare perché in Campania l’osso tenda a infondere vita e la polpa a prosciugarsi. Alle prese con la ristrettezza dei fondi e con lo scetticismo generale le istituzioni delle zone interne, quelle della provincia di Benevento tanto per fare un esempio, hanno dovuto coniugare in loco la lezione dello sviluppo locale, indigeno ed endogeno, cercando di comprendere come settori apparentemente obsoleti, l’agricoltura, potessero essere riproposti in nuove produzioni e come l’attrazione d’investimenti esterni potesse dipendere dalla reputazione istituzionale e non solo dall’agglomerazione di vecchi insediamenti eco-incompatibili. Si potrà discutere quanto simili tentativi si siano capillarizzati sul territorio; vero è che all’interno l’economia, nel suo piccolo, cresce e s’intravede una capacità istituzionale progressiva. Capacità, purtroppo, del tutto assente nel governo di Napoli: di fronte alla sfida della riconversione produttiva urbana, la medesima che tante città in Europa hanno dovuto affrontare, un modello è stato di fatto privilegiato: una cinta daziaria stipata di centri commerciali, un centro storico ridotto a movida inumana, una zona orientale incapace di mutare il vecchio inquinante volto. Da tutto ciò si fortifica l’osso dove prima era polpa. E non bastano le recenti esternazioni del presidente Napoletano per indurci in ottimismo.

Repubblica NAPOLI, 23 settembre 2007

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