«Je suis Charlie» la riflessione critica: Gianmarco Pisa

 

Caro Gianni, cari compagni dell'Archivio Storico della CGIL,

grazie, anzitutto, per la comunicazione con la quale sollecitate riflessioni e dibattito e per l'articolazione delle motivazioni pubblicate sul sito, che collocano su un piano di lettura, problematico e corretto, la complessità e la portata della riflessione sulla tragedia parigina. E' una iniziativa meritoria, una delle prime, tra l'altro che, non accontentandosi della raccolta di opinioni, contributi e punti di vista sparsi, più o meno convergenti, prova a metterle a sistema, indicando un filo conduttore e avviando una traccia, necessariamente pluralistica, di ragionamento. Do' il mio piccolo contributo alla riflessione da voi "istruita", dal punto di vista di un operatore di pace, vale a dire di chi cerca di porsi costantemente a confronto con il problema della violenza (e della sua prevenzione) e del conflitto (e del suo trascendimento).

A presto, un grazie e un abbraccio,

Gianmarco Pisa

 

Una questione di uguaglianza e di reciprocità

di Gianmarco Pisa, Operatori di Pace Campania associazione Onlus

 

0Nella vicenda, complessa e tragica, dell'attacco alla redazione di Charlie Hebdo e della strage nel negozio Kosher ogni riduzionismo rischia di essere banale e, a fronte della complessità e della portata della tragedia, perfino pericoloso. Personalmente, non trovo appagante lo schema logico da molte, troppe, parti applicato alla vicenda: libertà di espressione (fino al vilipendio), reazione terroristica (fino alla strage), ripristino dei valori - con una risposta di massa - di “libertà” e “democrazia”.

 Lo trovo, semmai, rassicurante, come una giaculatoria buona per recuperare l'ordine smarrito e placare l'angoscia provocata dal caos: troppe analogie con quella stessa spirale guerra-terrorismo-guerra che vorremmo esorcizzare e troppo poco ascolto delle voci critiche, dissonanti, dissenzienti.

Siamo, anzitutto, di fronte ad un immenso precipizio di violenza: ma la violenza non è solo fisica, è anche culturale e strutturale, ed è bene, specie se si lavora per prevenirla e per contrastarla, non isolare l'una dalle altre.

Johan Galtung, recentemente, ha scritto: «Minando l’esistenza spirituale di “altri” - come Charlie Hebdo ha fatto per tutto un mondo spirituale - si può suscitare una reazione a tale violenza verbale. Qualcuno degli “altri”, profondamente offesi da Charlie Hebdo e il suo autismo culturale, possono anche celebrare questa atrocità; nell'intimo, non pubblicamente».

Colpisce il nesso tra gli uni e gli “altri” e per questo è bene evitare ogni forma di autismo culturale, come ci avverte Galtung: la violenza non può essere esecrabile a giorni alterni, passabile (con più o meno distinguo e più o meno rimostranze) quando a subirla sono le masse arabe bombardate dall'alto o rinchiuse nei ghetti, ripugnante (senza se e senza ma) quando si scatena contro le capitali del ricco Occidente.

Non esistono formule taumaturgiche per sanare la contraddizione che, agendo simultaneamente sul terreno sociale, economico e culturale, pone alla politica la sfida di rispondere a dei bisogni e di indicare delle soluzioni.

Esistono però delle coordinate all'interno delle quali il lavoro per una società inter-culturale, non imperiosamente esclusivista, né banalmente relativista, può dispiegare la sua piena efficacia. Il principio di unità, universalità e indivisibilità dei diritti umani, ad esempio, sintetizzato nel motto: «tutti i diritti umani per tutti».

Seguendo ancora Johan Galtung: «L’Occidente ha un’argomentazione presumibilmente letale a favore della violenza verbale per l’annichilimento spirituale: libertà d’espressione. Una magnifica libertà, profondamente apprezzata da quelli che hanno qualcosa da esprimere. E molto facilmente minata, non dalla censura, ma dalla libertà di non-impressione, la libertà di non farsi impressionare: che parlino e scrivano, ma non ascoltate né leggete; rendeteli non-persone».

In definitiva, non da oggi: una grande questione di uguaglianza e di reciprocità.

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